In copertina: illustrazione estrapolata dal Livre de chasse, by Gaston Fébus, c.1407 © akg-images.

L’ultima volta che ho visto il lupo era una mattinata fredda l’estate di qualche anno fa, in una valletta anonima del parco del Monviso. Ci siamo guardati con blanda circospezione, a un centinaio di metri di distanza, poi se n’è andato tranquillamente. Una mia amica ha visto il lupo questa estate trotterellare sereno sulla strada asfaltata che porta ad una nota località sciistica piemontese. Strano come sia sempre IL lupo, non un qualsiasi lupo indeterminato, bensì l’archetipo di tutti i canidi carnivori che l’uomo abbia mai temuto.

I segni del suo passaggio sono ovunque nelle valli alpine, spesso si confondono con quelli dei cani. Il lupo non è un ospite nuovo delle Alpi, un saltuario visitatore degli angoli più remoti, ma nell’ultima decina di anni la sua presenza ha iniziato ad essere chiaramente percepibile anche alle porte di grandi centri abitati. Quasi tutti gli abitanti stanziali delle montagne possono ormai raccontare numerose esperienze, ma anche turisti e visitatori hanno, in molti casi, avuto incontri simili al mio.

Diffuso in tutti i settori alpini e appenninici fino a circa due secoli fa, questo carnivoro è stato decimato dalla caccia fino a rasentare la scomparsa quasi completa: negli anni 70 rimanevano pochi individui negli appennini meridionali. Con la Convenzione di Berna prima (1979) e la Direttiva Habitat dell’Unione Europea in seguito (1992), sono entrate in vigore norme di protezione assoluta che, in aggiunta allo spopolamento delle aree periferiche e all’aumento di ungulati selvatici, ha permesso al lupo di percorrere nuovamente tutta la penisola. Sulle Alpi, dove era completamente scomparso, individui provenienti dalle aree appenniniche si sono gradualmente installati insieme a branchi provenienti dai Balcani e dai Carpazi.


Nel tempo, lupi provenienti dalle aree appenniniche si sono gradualmente installati sulle Alpi, insieme a branchi originari dei Balcani e dei Carpazi.


L’argomento è di grande fascinazione naturalistica, anche per questo è dal 2013 fulcro di un progetto di largo respiro finanziato dall’Unione Europea, che nei prossimi anni si espanderà dall’Italia fino a comprendere anche le alpi francesi, svizzere e slovene. LIFEWolfAlps, con una durata ormai decennale e l’impiego di almeno 500 operatori, si è infatti occupato di svolgere monitoraggi sul territorio, con il fine di ottenere dati sui branchi italiani.

Tuttavia questo lavoro è stato oggetto di numerose controversie, e spesso aspramente criticato da associazioni di allevatori, che accusano LIFEWolfAlps di stime approssimative: secondo l’ultimo monitoraggio disponibile, sull’intera superficie alpina vi sarebbero “46 branchi e 5 coppie per un totale di almeno 293 lupi nel periodo 2017-2018”. Non sono ancora disponibili numeri aggiornati per tutto l’arco alpino, ma è difficile effettivamente far tornare i conti quando Coldiretti stima circa 500 individui per quanto riguarda il Piemonte, e i dati più recenti raccolti dal Centro Grandi Carnivori indicano 9-10 branchi nella sola provincia di Alessandria, nelle Aree Protette dell’Appennino Piemontese. Il Parco delle Alpi Marittime (di cui fa parte anche il Centro Uomini e Lupi di Entracque) pubblica le segnalazioni di esemplari ritrovati deceduti: in Piemonte sono 3 solo a gennaio 2022!

Molte di quelle che sembrano discrepanze hanno in realtà a che fare con i metodi di censimento utilizzati, che sono sempre spiegati con trasparenza nei progetti, ma possono non risultare chiari o immediati ad un pubblico non composto da tecnici del settore. I censimenti vengono realizzati seguendo l’anno biologico del lupo, ovvero dal periodo in cui nascono le cucciolate (dal 1° maggio al 30 aprile dell’anno successivo), e necessitano in seguito di un periodo di elaborazione dati: entro maggio, per esempio, dovrebbero essere resi disponibili i dati riferiti alla stagione 2020-2021. Inoltre il censimento individua sempre il numero minimo di branchi e individui.

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Per quanto riguarda i ritrovamenti di esemplari morti, i numeri elevati potrebbero essere dovuti al fatto che si tratta nella maggior parte dei casi di individui “in dispersione”, ovvero lupi giovani in cerca di territorio, categoria naturalmente soggetta ad una mortalità molto elevata (75% circa). Ciononostante è innegabile che i numeri stiano crescendo in modo esponenziale e i nuovi dati dovrebbero confermare questa tendenza, registrando anche il fenomeno preoccupante della colonizzazione delle pianure e quello dell’ibridazione con cani randagi.

Ma perché quello del lupo è un argomento così spinoso? Se ci trovassimo in un territorio diverso e incontaminato, come il celebre esempio del parco di Yellowstone, il problema non si porrebbe nemmeno. Tuttavia nelle Alpi tutto viene complicato da un fattore preciso: l’uomo. Al contrario di aree più selvagge, il territorio alpino è “addomesticato” da circa 10.000 anni, quando i primi pastori nomadi iniziarono a percorrere le montagne con mandrie e greggi. Le Alpi non sono, come potremmo immaginare, un habitat completamente naturale, bensì un complesso pattern di ambienti fortemente influenzato da millenni di convivenza con l’uomo.

La presenza di popolazioni autoctone, di contadini, boscaioli e pastori ha contribuito a generare una biodiversità unica, che è messa in pericolo soprattutto dal cambiamento climatico e dall’abbandono. In questo scenario, il lupo si inserisce di sicuro come un efficace elemento di controllo per le popolazioni di ungulati selvatici, tuttavia è ormai comune la predazione anche dei domestici, che siano al pascolo o in strutture aziendali. Definire la convivenza difficoltosa è un eufemismo: gli allevatori, spesso residenti in zone periferiche e sovente dimenticati dalle istituzioni, sono costantemente sul piede di guerra, in lotta con le associazioni ambientaliste che vorrebbero mantenere la protezione assoluta per la specie.

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Le Regioni, spesso tramite lo strumento dei bandi PSR, incoraggiano e finanziano l’adozione di sistemi di protezione con una provata efficacia (recinzioni, cani da guardiania), ma i fondi sono spesso insufficienti o difficili da ottenere, e finiscono per andare a coprire, come misura tampone, i rimborsi per animali uccisi.
Dall’altra parte delle Alpi, in Francia, le misure per la difesa dal lupo sono sicuramente più drastiche: da qualche tempo viene autorizzato l’abbattimento degli individui, circa un centinaio all’anno, corrispondente al 19-21% della popolazione.

In Italia, nonostante numeri paragonabili se non più alti, manca la volontà politica per adottare una soluzione del genere. Oltre a questa misura contenitiva, in Francia ci sono degli aiuti più strutturali e un sistema di supporto che, al contrario di quello italiano, non procede a singhiozzo con bandi periodici. D’altronde oltralpe la pastorizia è riconosciuta come un vero e proprio mestiere meritevole di dignità e di formazione, e non come un impiego stagionale destinato ai reietti della società o a immigrati senza altra scelta.


In Francia da qualche tempo viene autorizzato l’abbattimento degli individui, circa un centinaio all’anno, corrispondente al 19-21% della popolazione.


In un Paese dove le tematiche ambientali e di tutela del territorio sono sempre l’ultima delle priorità, lo scenario purtroppo non è dei migliori. Anche quest’anno i fondi europei finiranno a finanziare nuovi monitoraggi, quando ormai l’incremento costante delle popolazioni è chiaro anche ai non addetti ai lavori. Forse sarebbe più utile destinare lo stesso denaro all’implementazione di misure preventive, indirizzandolo dove i lupi stanno effettivamente provocando danni economici alle popolazioni locali.

Continuare sulla stessa linea rappresenterebbe un grave errore, con l’unico risultato di inasprire ancora di più il divario già presente fra i tecnici o i ricercatori, visti come ambientalisti senza un reale contatto con il territorio, e gli allevatori esasperati e sfiduciati verso la scienza e le istituzioni, che non fanno altro che fomentare paure e pregiudizi nei confronti del predatore. Questo conflitto è sanabile solo con uno sforzo congiunto da entrambe le parti, e un briciolo di autocritica: innegabilmente i progetti dovrebbero cambiare direzione e adottare risvolti più pratici, ma è necessario anche da parte del mondo rurale l’impegno a comprendere questa situazione, nuova per tutti, senza pretendere che possa tornare tutto come cinquant’anni fa.

Il lupo è tornato per restare, e per fortuna. Con un po’ di attenzione non solo alla biodiversità animale e vegetale ma anche alla comunità umana che le presidia, le Alpi possono e devono rimanere un luogo di convivenza fra uomo e natura, un modello da seguire e una ricchezza da salvaguardare.