Quando pensiamo ai parchi e alle riserve naturali, la nostra mente corre subito in America, negli Stati Uniti, dove i parchi nazionali rappresentano una delle maggiori attrattive turistiche del mondo.
Deserti sconfinati, foreste di sequoie alte decine di metri, praterie leggendarie, canyon e ghiacciai: la varietà dei paesaggi nordamericani sembra davvero enciclopedica, un patrimonio ambientale e sociale senza precedenti.
Non a caso, il concetto stesso di parco nazionale fu inventato proprio in America, quando Ulysses Simpson Grant – 18esimo presidente degli Stati Uniti – fondò il parco più antico del mondo, quello di Yellowstone, il 1 marzo 1872.
In Italia la storia è ben diversa. Il primo parco nazionale fu istituito nel 1922 intorno all’omonimo massiccio, il Gran Paradiso, a cavallo tra Piemonte e Valle d’Aosta. Il suo obiettivo principale era quello “di preservare la fauna e la flora e di preservarne le speciali formazioni geologiche, nonché la bellezza del paesaggio”. In particolare si voleva tutelare la specie diventata simbolo del parco stesso, lo stambecco.
La caccia nei confronti di questo animale era stata vietata già nel 1821, per volontà di re Carlo Felice di Savoia e poi ribadita da re Carlo Alberto nel 1936 con una patente regia; tuttavia, sarebbe ingenuo pensare che i sovrani dell’epoca fossero spinti da motivazioni ambientaliste e di salvaguardia della specie. Al contrario, la famiglia reale voleva “privatizzare” la caccia dello stambecco, vietandola agli altri. Per questo motivo nel 1856 istituirono la riserva reale di caccia proprio tra queste montagne.
Il primo parco nazionale fu istituito nel 1922 intorno all’omonimo massiccio, il Gran Paradiso, per tutelare la specie simbolo della zona: lo stambecco.
Dopo diversi anni, nel 1913 ebbe luogo l’ultima caccia reale. Sei anni più tardi, Vittorio Emanuele III decise di cedere allo Stato i territori del Gran Paradiso di sua proprietà con i relativi diritti, indicando come condizione l’istituzione un parco nazionale per la protezione della flora e della fauna alpina (quando ormai la popolazione degli stambecchi era ridotta all’osso).

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Nonostante la nascita ufficiale del parco, le difficoltà per la sua effettiva affermazione furono molteplici. Tra le manovre militari che si effettuavano sulle montagne e i lavori dettati da nuove esigenze industriali (ad esempio, la produzione di energia elettrica), la salvaguardia del parco spesso si scontrava con i bisogni del progresso. Con la differenza che i quest’ultimi erano dettati da interessi economici incalzanti. Grazie alla tenacia di personaggi come Renzo Videsott e al suo moto “parchigiano”, il Gran Paradiso iniziò finalmente a trovare la sua posizione nello scacchiere istituzionale: direttore dal 1944 al 1969, attuò una vigorosa opera di riorganizzazione ottenendo anche l’autonomia amministrativa. E, su proposta dello stesso Videsott, nel 1947 fu istituito l’Ente Parco Nazionale Gran Paradiso, per trovare maggiore collaborazione con lo Stato e una più chiara divisione delle competenze. Da quel momento in poi le cose cambiarono e il Gran Paradiso divenne un esempio a livello internazionale: orti botanici, spazi museali, centri dedicati ai visitatori, gemellaggi con altri parchi europei hanno infatti dato risalto a quest’area montana.
Sempre negli stessi anni in Italia fu inaugurato un altro parco nazionale, divenuto oggi un riferimento per gli appassionati di natura: l’11 gennaio 1923 lo Stato italiano riconosceva ufficialmente l’Ente Autonomo Parco Nazionale d’Abruzzo (che nei fatti esisteva già dal 1921). Anche in questo caso l’intento era quello di preservare l’area, dopo che Vittorio Emanuele II ne aveva fatto un’altra riserva di caccia.
La realizzazione di una rete più ampia dei parchi nazionali ha dovuto aspettare però gli anni 80 del secolo scorso, dopo un lungo periodo di torpore istituzionale. Grazie alla “sfida del 10%” promossa per proteggere almeno il 10% del territorio italiano e alla legge quadro sulle aree protette (n.394/91), si è riusciti oggi ad arrivare a quota 25 parchi nazionali, con l’ultimo realizzato sull’Isola di Pantelleria (il primo in Sicilia), nel 2016.
Dal secondo dopoguerra in poi, si è visto un rapido aumento dei parchi nazionali in Italia, fino al raggiungimento di quota 25 con l’ultimo realizzato sull’isola di Pantelleria (il primo in Sicilia), nel 2016.
Un progetto che, dopo l’entusiasmo iniziale, ha dovuto fare i conti con la famigerata burocrazia e un discreto problema di governance: perchè alcuni parchi sono nazionali, perchè altri sono regionali? Chi deve coordinare questi enti? E soprattutto, come possono coesistere sostegno ambientale e sostentamento economico?
Il quadro normativo appare tutt’altro che facile da interpretare e rispecchia la singolarità del caso italiano.
Nonostante infatti le Regioni esistano già dagli albori del disegno costituzionale, è però solo con la legge 382/1975 e il D.P.R. 616/1977 che conquistarono la titolarità effettiva delle funzioni amministrative in materia di beni culturali ed ambientali, ed in particolare quelle degli “interventi per la protezione della natura, le riserve ed i parchi naturali”. Servirà poi un ulteriore sforzo per giungere alla fatidica normativa nazionale quadro, dopo lunghissime discussioni.
In seguito, sarà poi la dibattuta riforma del titolo V, operata con legge costituzionale 3/2011, a cercare di definire le competenze dei singoli enti. Allo Stato veniva affidata la competenza esclusiva in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” e alle Regioni le competenze per le materie di “governo del territorio; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; valorizzazione dei beni culturali e ambientali”.
Una scelta generale, quella di lasciare alle Regioni tutte le materie la cui competenza non è esclusivamente dello Stato, che ha creato numerosi contenziosi, anche in materia di aree protette.
Il dibattito poi non si ferma esclusivamente sul piano formale/giuridico della ripartizione di competenze, ma anche su quello sostanziale, di contenuto.

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Uno dei casi che ha fatto maggiormente discutere nel recente passato (2016), è stato senz’altro il dibattito sulla presenza di pozzi petroliferi nel Parco nazionale dell’Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese in Basilicata, istituito nel 2007, dopo moltissime polemiche durate diversi anni.
All’epoca infatti – come riportava Pietro Dommarco sulle pagine di Wired – “l’Ente Parco rilasciò il nulla osta per la riperforazione di tre pozzi petroliferi Eni ubicati all’interno dell’area protetta nazionale e a poche centinaia di metri dall’invaso del Pertusillo, classificato ZPS (Zona di Protezione Speciale)”.
Una scelta in enorme contraddizione con le direttive europee presenti nella Rete Natura 2000 in materia di habitat, ma a favore invece dell’industria petrolifera.
A distanza di cinque anni le cose non sembrano affatto migliorate: secondo lo studio riportato dalle associazioni Re:Common e Source International, nelle aree circostanti il Centro Olio di Eni in provincia di Potenza (a ridosso del parco nazionale), i composti organici volatili totali raggiungono livelli paragonabili a quelli di Pechino e Nuova Delhi, tra le aree più inquinate del mondo.
Nelle aree circostanti il Centro Olio di Eni in provincia di Potenza (a ridosso del parco nazionale), i composti organici volatili totali raggiungono livelli paragonabili a quelli di Pechino e Nuova Delhi, tra le aree più inquinate del mondo.
L’esempio del parco in Basilicata – sicuramente un caso limite, ma che dovrebbe far suonare qualche campanello d’allarme – ha suscitato diverse polemiche, contribuendo così all’analisi e alla riflessione avanzata dal WWF per il trentennale della legge quadro sui Parchi.
Tra le maggiori problematiche emerse dal report ce n’è senz’altro una di tipo burocratico. “In Italia ci sono 871 aree protette per un totale di oltre 3 milioni di ettari tutelati a terra, circa 2.850 mila ettari a mare e 658 km di costa. Però la metà dei territori di Rete Natura 2000 è all’esterno di queste”. Per questo motivo, si legge – “la legge quadro sulle aree protette consente quindi una tutela parziale del territorio italiano ritenuto meritevole di tutela naturalistica ai sensi delle normative comunitario”.
Secondo l’organizzazione per la difesa dell’ambiente, il livello di categorizzazione delle aree protette andrebbe rivisto. “Oggi i parchi nazionali, così come quelli regionali, hanno caratteristiche profondamente diverse tra loro, frutto in larga parte di accordi politici e non già di rigorosa applicazione dei criteri d’individuazione previsti dalla Legge quadro”, afferma il WWF.
Pur riconoscendo gli ottimi passi in avanti compiuti negli ultimi decenni, è necessario guardare avanti, soprattutto in vista della nuova “Sfida 30%” richiesta a livello europeo, per proteggere territori e mari entro il 2030.

Secondo Toni Farina, Consigliere rappresentante delle Associazioni Ambientaliste all’interno del Consiglio direttivo del Parco Gran Paradiso, le difficoltà nella gestione dei parchi nazionali e regionali sono molto complesse.
“Se le cose non cambieranno presto, sarà difficile vedere un futuro per i parchi Italiani. Penso che i parchi dovrebbero giocare un ruolo trainante per il futuro del Paese, potrebbero essere un vero e proprio laboratorio di sostenibilità. Invece le problematiche strutturali impediscono di ragionare su qualsiasi tipologia di strategia e pianificazione”.
Quali sono gli ostacoli più grandi?
“Penso che ci siano due grandi problemi. Il primo è relativo alle risorse, perchè è sempre difficile trovare un compromesso tra gli equilibri economici e quelli ambientali. Chi stabilisce se costruire un’infrastruttura in un parco è un’opera necessaria, positiva o dannosa?È una scelta politica o tecnica?”
E il secondo? “Il secondo problema riguarda la governance. Spesso accade che a decidedere siano solamente i sindaci, ed è molto facile che gli interessi ricadano sempre a favore solo di una parte. È davvero difficile intavolare un dibattito, se a livello statale non viene presa una direzione chiara e definita”.
“Se le cose non cambieranno presto, sarà difficile vedere un futuro per i parchi italiani”.
Con queste premesse, sembra davvero difficile vedere un futuro roseo per i nostri parchi.
“Purtroppo in Italia, a livello politico, stiamo facendo dei passi indietro. Dopo la spinta che portò alla legge quadro del ’91, oggi si pensa ad intervenire solo nelle emergenze; il tema dei parchi è sempre molto lontano dai programmi elettorali, quando invece potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo molto più importante”, continua Farina. “Se guardo in casa, al Parco del Gran Paradiso e al Piemonte, mi sembra assurdo che non ci sia alcun collegamento tra il capoluogo delle Regione e uno dei suoi maggiori punti di interesse naturalistico.
Spesso i parchi sono stati visti come un peso dalle istituzioni; oggi che finalmente gli investimenti sembrano arrivare, è il momento di inserire le nostre aree protette al centro del futuro del Paese”.